di Vanessa Masè*
La notte tra il 5 e i 6 settembre a Nago Eleonora Perraro è stata uccisa dal compagno di vita, probabilmente a seguito di una lite sfociata in violenza.
L’uomo, che dice di non ricordare nulla, è stato trovato
abbracciato alla sua vittima, come se questo gesto di presunto amore potesse in
qualche modo diminuire il peso di un atto tanto efferato.
Non è il primo femminicidio che avviene in Trentino,
ricordiamo bene l’omicidio di Alba Chiara nel 2017, di Carmela, di Laura e
della di lei figlia nel 2015: tutte donne uccise dai compagni che “le amavano”.
Ora mi chiedo che genere di amore sia quello che spinge a
riempire di botte una donna e poi a ucciderla barbaramente, o come si possa
commentare questi fatti dicendo che sono “tragedie”, che “lui la amava e non si
rassegnava a perderla”? utilizzare parole che in qualche modo attutiscono la
portata di gesti tanto efferati e inscusabili crea una sorta di alibi sociale
che ora più che mai è assolutamente fuori luogo, considerati i numeri che danno
il quadro delle violenze perpetrate sulle donne.
Non si tratta infatti di essere femministe o di portare
avanti bandiere di genere, ma di guardare la realtà che ci dice che ogni tre
giorni in Italia una donna muore sotto i colpi di qualcuno che asserisce di
amarla e di non poter vivere senza di lei tanto da ucciderla….
E’ giusto quindi che la società si interroghi su che tipo di
educazione stiamo dando ai nostri figli, che tipo di messaggio stiamo passando
alle nuove generazioni se non siamo ancora riusciti a far capire agli uomini
che se una donna non ti vuole, è seccante, ma non finisce il mondo (non finisce
quello dell’uomo, e di conseguenza non deve finire quello della donna) e la
virilità non è in discussione, semplicemente è la vita e tocca anche accettare
il rifiuto. Dall’altro lato però anche le donne devono lavorare su loro stesse:
devono amarsi e rispettarsi, trovando la forza di dire basta, di mandare via o
di andare via da chi manca loro di rispetto, da chi pretende non la sana
esclusività dell’amore ma impone una gabbia di suprusi e violenze, troppe volte
anche assassine. Tacere e “mandare giù” non è la soluzione, perché non è mai “è
stato solo quella volta”, o “è stata colpa mia, lui in fondo non voleva”.
Quelle frasi non sono altro che l’anticamera dell’inferno. E se a fare da
spettatori ci sono dei figli, stare insieme non è fare il loro bene, è
compromettere il loro equilibrio mentale e il loro diventare un giorno adulti
rispettosi. Sempre più forte e sicura poi deve essere la rete di protezione
attivata intorno a quelle donne che si rifiutano di continuare a vivere
nell’incubo, e su questo le istituzioni tanto possono ancora fare.
Io parteciperò convintamente alla manifestazione di Arco, con
le scarpe rosse. Scarpe rosse che ormai in tutto il mondo sono il simbolo della
gioia di vivere spezzata, perché
qualcuno, a suo dire per amore, ha deciso così, uccidendo. Spero saremo in
tanti, perché il corteo sarà momento di consapevolezza, di raccoglimento, di
dolore, di coscienza sociale, e nel contempo, anche un modo per lenire la
ferita di una comunità lacerata. Queste manifestazioni pubbliche sono infatti
anche un gesto con cui una società prova ad elaborare un grave vulnus al
proprio interno stringendosi attorno alle famiglie ferite, ma anche un modo per
tenere desta l’attenzione che non deve limitarsi solo alla cronaca nera o
giudiziaria, ma aprire una riflessione su che tipo di società vogliamo essere e
soprattutto vogliamo diventare.
Faccio mio poi l’invito del presidente del Consiglio provinciale Walter Kaswalder a visitare numerosi, a Palazzo Trentini, la mostra“Alba Chiara: luce negli occhi, gioia nel cuore” che verrà inaugurata il 20 settembre , con i quadri della ventiduenne di Tenno uccisa due anni fa e che nessuno di noi vuole dimenticare.
*Capogruppo de La Civica in Consiglio provinciale